
Parlare di Alessandro Dettori e dei suoi vini è un compito davvero difficile, poiché la sua figura è stata via via tratteggiata con le caratteristiche del mito romantico senza tempo. In realtà Alessandro è distante anni luce da questa mitizzazione, un po’ naif, che purtroppo finisce per trascurare i suoi veri punti di forza, come la determinazione, un po’ testarda (così visceralmente “sarda”), la grandissima preparazione tecnico-agronomica e un invidiabile pragmatismo.
In un fazzoletto di terra di Romangia, i cui abitanti indigeni producevano vino già 1000 anni prima di Cristo, a meno di 5 chilometri dal mare, nella zona nordoccidentale di quel continente racchiuso in un’isola che è la Sardegna, Alessandro è il portavoce più autorevole e conosciuto di una viticoltura ispirata dalla saggezza dei padri e dei padri dei padri. In questo senso, non per falsa modestia, lui ci tiene a ricordare ai più distratti che lui non si è inventato niente, ma ha appreso a piene mani dall’esperienza vitivinicola del luogo, innanzitutto dal nonno che lo portava, giovanissimo, nei vigneti, mettendolo in contatto con quel mondo che avrebbe imparato ad amare.
Alessandro potrebbe essere definito senza dubbio un viticoltore naturale, nonostante sia totalmente avulso dal mito fiabesco che la naturalità ha costruito attorno a sé stessa. Per capire l’uomo basta pensare alla nascita della sua cantina totalmente interrata: dopo anni di studio e lo scavo per ospitarla, si sono attesi tre anni per consentire lo studio della tenuta del suolo e delle infiltrazioni di acqua, al fine di individuare le zone più adatte in cui costruire gli ambienti di vinificazione e maturazione.
Per quanto riguarda le tecniche produttive la cantina rifiuta ogni forma di sistemici chimici in vigna, anche a costo di perdere un’intera annata (come nel 2008), e ogni intervento è motivato dalla volontà di esaltare la capacità delle viti di autoregolarsi. In questo senso, non per falsa modestia, lui ci tiene a ricordare ai più distratti che lui non si è inventato niente, ma ha appreso a piene mani dall’esperienza vitivinicola del luogo, innanzitutto dal nonno che lo portava, giovanissimo, nei vigneti, mettendolo in contatto con quel mondo che avrebbe imparato ad amare. Dopo la svinatura sempre manuale, che consente una maggiore delicatezza e l’assenza di shock per le masse, il vino viene travasato nelle piccole vasche di cemento, dove affina dai 2 ai 3 anni prima dell’imbottigliamento, senza aggiunta di CO2.
Il vino Tuderi, che potrebbe essere definito, non senza approssimazione, il suo vino d’ingresso, nasce da un vigneto di poco meno di 3 ettari di uva Cannonau, con piante di 45 anni di età da cui non si ricava più di mezzo chilo d’uva cadauna. Si tratta di un vino dal colore rubino con sfumature aranciate che, nell’annata 2016, profuma di fico scuro surmaturo, durone, garrigue e mirto, con un contorno di carruba, fico d’India, arancia rossa ed elicriso secco, ed un’eco finale di sottobosco e vinile. Il gusto è spiazzante poiché unisce una solarità materica densa e corposa a una incredibile facilità e leggerezza di beva, grazie ad una componente acida che fa dimenticare in fretta il leggero residuo zuccherino; tutto ciò mentre il retro-olfatto richiama le note vegetali e quelle fruttate, che si incardinano al centro del sorso e lo accompagnano a una chiusura di buona lunghezza.
Punteggio: 90/100
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